Collezione Farnesina: gli artisti

SCHEDE CRITICHE a cura di Paola Marino

CARLA ACCARDI
(Trapani, 1924 – Roma 2014)

Pioniera nel dopoguerra di una arte del segno – colore che qualifica gli spazi dipingendo rapporti autonomi e ritmi vitali su tele e su strutture trasparenti. Protagonista a Roma dal 1947 del gruppo Forma 1 (insieme a Ugo Attardi, Pietro Consagra, Piero Dorazio, Giovanni Guerrini, Achille Perilli, Antonio Sanfilippo, Giulio Turcato). Esponente storica del movimento femminista italiano. La tela esposta “Gioco rosso” (2007)  è esemplare del suo periodo maturo. 

AFRO
(Udine 1912 – Zurigo 1976)

Afro (Afro Basaldella) si è imposto all’attenzione internazionale come uno dei più raffinati interpreti della pittura astratta – concreta del dopoguerra a Roma. Dopo esordi nella Scuola Romana con pittura di tendenza neocubista, fu tra i fondatori nel 1952 del gruppo italiano degli Otto (con artisti come Birolli, Turcato, Santomaso, Vedova) sostenuto dal critico Lionello Venturi. Il dipinto “Arena 74” (1974) è esempio significativo della ricerca di nuovi rapporti di armonia tra forme, colori e spazio.

GETULIO ALVIANI
(Udine 1939- Milano 2018)

Propone fra i primi in Italia le ricerche di arte ottica, cinetica e “programmata” che dagli anni ‘60 rinnovano la pittura su basi tecnologiche e scientifiche, agendo da solo o insieme a diversi gruppi europei. Crea textures geometriche su superfici laminate ottenendo vibrazioni luminose. Estende l’innovazione ad interi ambienti che coinvolgono la percezione degli spettatori. Suggestioni che si ritrovano nella struttura in alluminio del 1965 messa in mostra.

MATTEO BASILE’
(Roma 1974)

L’artista romano pratica sin agli anni ‘90 la computer art e la fotografia digitale per rinnovare effetti, colori e forme della pittura tradizionale. Sperimentando i new media realizza ritratti di persone anche dell’Estremo Oriente, e scene spettacolari che citano la pittura barocca e fiamminga. Prove di conciliazione fra tradizione e rinnovamento che si possono riscontrare nel personaggio con cuore in mano ritratto in stampa digitale su alluminio (2000).

VANESSA BEECROFT
(Genova, 1969).

L’artista propone dagli anni ’90, una diversa visione del corpo delle donne nella società di massa e nel mondo stereotipato della moda e dei media.  Con le stilizzate performances collettive che le hanno conferito fama internazionale produce grandi scene fotografiche. In pittura e disegno isola figure con libera tensione espressiva. Ne è esempio dei primi anni (1996) l’immagine in mostra “Senza titolo” (1996) eseguita in olio e pastelli a cera.

ELENA BELLANTONI
(Roma 1975)

Le pratiche contemporanee di relazione fra il corpo e gli spazi della vita, della natura e della memoria, sono al centro delle performances dell’artista romana. La loro traduzione in video e fotografie dà luogo ad opere di autonomo significato. il realismo delle azioni viene così trasformato in meditazione surreale sui rapporti sociali. E’ il caso del video “The Fox and the Wolf: Struggle for Power” (2014):  una danza in maschera a ritmo di tango, girata all’interno del Palazzo Farnesina, che è anche una sfida.

DOMENICO BIANCHI
(Anagni 1955)

Esponente di una nuova “Scuola Romana” (un gruppo di giovani artisti che dagli anni 80 hanno i loto atelier in un ex Pastificio) dà vita ad una pittura di segni astratti e minimi composti in ritmi circolari e musicali. Sono disegnati, intagliati o graffiti su superfici di materia diversa, legno, metallo, vetro, cera, con ricerca di trasparenze. E’ il caso dell’opera “Senza titolo” (2022) in cui dischi di cera si compongono in danze su un supporto in fibra di vetro.

UMBERTO BOCCIONI
(Reggio Calabria, 1882 – Verona, 1916) 

Massimo esponente del Futurismo italiano, il movimento di avanguardia fondato nel 1909 da Filippo Tommaso Marinetti che ha diffuso nel mondo una nuova concezione dell’arte come espressione della vita moderna e della civiltà meccanizzata. Idee rese in pittura e in scultura con la compenetrazione dei corpi e la messinscena simultanea di tempi e spazi diversi. In mostra una delle rare versioni in bronzo del suo capolavoro “Forme uniche della continuità nello spazio” (l’originale in gesso è del 1913).

ALIGHIERO BOETTI
(Torino 1940-Roma 1994)

Inventore di una originale linea italiana, amata nel mondo, che dagli anni ‘70 ha mescolato con fantasia e ironia nell’Arte povera l’arte concettuale con la quotidianità della cultura pop. Autore di puzzles linguistici, repertori in apparenza infantili di figure, oggetti e nomi, mappe del mondo. Ha usato mezzi semplici come la penna biro o pratiche artigianali come l’arazzo e il ricamo. L’esecuzione è spesso affidata ad altri, come tessitrici afghane. In mostra la composizione in quattro scene “I vedenti” (1988).

AGOSTINO BONALUMI
(Vimercate 1935 – Desio 2013)

Nel clima di rinnovamento a Milano dopo l’Arte Informale (da Fontana a Manzoni) realizza dagli anni ‘60 tele dipinte con un solo colore, anche in bianco, che sporgono e creano volumi grazie a supporti di legno e metallo dietro la tela. I rilievi danno luogo negli anni seguenti a giochi di ombre e tagli di luce, con effetti di allucinazione plastica. Una pittura “concreta” come nella  suggestiva opera in mostra “Estroflessione  bianca” con intagli lamellari (1972).

DANILO BUCCHI
(Roma 1978)

L’artista romano dà luogo a composizioni di pittura visionaria, con filamenti di colore a smalto nero o blu che danno impressioni di liquidità. Ne sortiscono scene misteriose con figure antropomorfe e “bambole”, oppure reticolati che rimandano a impossibili mondi astrali o molecolari. Una esperienza di pittura compiuta in solitudine, con riferimenti ad esempi dell’astrattismo storico europeo. In mostra una esemplare opera senza titolo, del 2009.

ALBERTO BURRI
(Città di Castello, 1915-1995)

Pioniere italiano dell’arte informale, il maestro umbro acclamato nel mondo ha dato vita dal dopoguerra ad una serie di interventi su materie povere con opere di monumentale drammaticità e solennità: sacchi di juta strappati e rattoppati, legni e teli di plastica bruciati, lamiere squarciate, superfici di creta screpolata (i “cretti”). A questa ultima esperienza materica corrispondono in mostra due acqueforti su lastre di bronzo del 1971.

LORIS CECCHINI
(Milano 1969)

Si afferma nelle tendenze neosurrealiste degli anni 2000 con la costruzione di “non sculture” di oggetti in gomma uretanica e di interi ambienti “molli” che evocano situazioni reali ma “respirano” con contrazioni ed espansioni. Realizza infine installazioni con moduli metallici che simulano spazi di vita e di lavoro reale ma con inganni visivi e apparizioni assurde. Ne è dimostrazione il grande pannello fotografico in stampa lamba, silicone e plexiglass intitolato “Zooffice (Muflo)” del 2001, con l’irruzione di un muflone dentro un ufficio devastato.

MARIO CEROLI
(Castel Frentano, 1938)

Opera sin dagli ultimi anni ‘50 una geniale coniugazione tra Pop Art americana e grande tradizione di arte e artigianato italiani. Ritaglia nel legno grezzo scene di vita sociale e di storia politica con sagome umane, ricostruisce interi ambienti che evocano situazioni dal Rinascimento alla Metafisica. Estende questa esperienza di scultura sintetica alla scenografia teatrale e all’arte pubblica monumentale. Una celebre scultura romana è citata nel metafisico pannello in legno bruciato “Bocca della verità”, 1965.

SANDRO CHIA
(Firenze 1946)

È tra gli esponenti della Transavanguardia, il movimento teorizzato da Achille Bonito Oliva nel 1978, col quale si recuperavano il valore manuale della pittura, il rapporto con storia dell’arte secondo i principi di citazione e contaminazione. L’artista ha vissuto per 20 anni a New York, realizzando dipinti e sculture di scene fantastiche affollate con personaggi umili ed eroi mitologici, con stile che rielabora spunti da maestri antichi e moderni. Come si vede nei due mosaici esposti, degli anni ‘90.

SARAH CIRACI’
(Grottaglie, 1972)

L’artista pugliese si è affermata a Milano dai primi anni 2000 con opere di videoarte fantascientifica e concettuale, simulando atterraggi di extraterrestri su campi che ricordano il “Grande Vetro” di Marcel Duchamp, e all’inverso voli di monumenti terrestri nel cosmo. Ha sviluppato poi installazioni  ambientali in cui l’alta tecnologia e luci al laser dialogano con la natura, la cultura e i monumenti della sua terra di origine. Capolavoro del primo periodo è il misterioso, inquietante video “Trebbiatori celesti” (2001).

FRANCESCO CLEMENTE
(Napoli 1952)

Altro protagonista della Transavanguardia italiana. Dopo la formazione tra Napoli e Roma , ha praticato una pittura di figure nelle quali una tensione di stile espressionista europeo viene stemperata dal dialogo con le culture simboliste dell’India dove ha vissuto spesso. Si è poi trasferito a New York. Dai rapporti diretti con la cultura beat ha maturato modi di figurazione primitiva e sofisticata insieme, tra erotismo e sacralità. Motivi che si ritrovano in mostra nell’acquatinta su lastra di rame del 1986.

PIETRO CONSAGRA
(Mazara del Vallo, 1920 – Milano 2005)

Prestigioso rappresentante del rinnovamento della scultura italiana. Partecipando nel 1947 al gruppo romano Forma, afferma e pratica il passaggio all’astrattismo. Propone l’abbandono della terza dimensione nella scultura per celebrare una visione frontale, quasi da schermo sul quale tagli e sovrapposizioni creano rapporti verticali con lo spazio atmosferico. Scelta particolarmente efficace in grandi opere erette negli spazi urbani o della natura aperta. Se ne colgono segnali nella preziosa scultura in bronzo “Riflessa n.3” (1966).

ENZO CUCCHI
(Morro d’Alba, 1949)

L’artista di origine marchigiana porta nel gruppo della Transavaguardia una carica dirompente di espressionismo -simbolismo popolare. Dipinge in colori violenti e impuri frammenti di immagini visionarie. Sono connesse non da una narrazione evidente ma da una suggestione che evoca condizioni esistenziali di dramma, conflitto, spesso di morte. Domina il piacere di un colore aspro che dalle tele si traferisce anche ad oggetti e sculture. Un assaggio significativo è offerto dal dittico di olio su tela “Gesù” (2000).

SABRINA D’ALESSANDRO
(Milano 1975)

Nell’arte contemporanea c’è una diffusa tendenza a recuperare, mettere in ordine, ripensare immagini, oggetti, documenti del passato collettivo e personale. Questa arte definita di “archivio” o di memoria, ha una singolare versione nel lavoro dell’ artista ligure. Si propone di “salvare” parole dimenticate o fuori uso e rimetterle all’attenzione del pubblico in forme più varie, istallazioni, fotografie, libri. Ne è un esempio il video intriso di umorismo che commenta la parola onomatopeica “Raplaplà” (2010-2016)

GINO DE DOMINICIS
(Ancona 1947 – Roma 1998)

Sfugge ad ogni classificazione di tendenza la produzione di un artista che ha segnato il suo tempo. Nei ‘60  – ‘70 con famose performances, istallazioni e video che indagano sui misteri del tempo e della morte in modi di provocazione, di ironia e di assurdo, coinvolgendo persone viventi o creando beffardi scheletri. Dagli ‘80 sino alla sua scomparsa, prevale una pittura con figure misteriose che citano miti di Oriente, riti esoterici, stupori astrali. Ricordato in mostra con una immagine tra fotografia e serigrafia: “Opera obliqua”, 1997.

NICOLA DE MARIA
(Foglianise, 1954)

Ha partecipato al gruppo della Transavanguardia in modi differenti e personali, con prove di pittura astratta, improntata a motivi lirici e poetici. Fondata su campi netti di colore brillante e intenso (il rosso, il blu, il giallo) su cui si posano segni fiabeschi che evocano cieli e mari, astri, fiori, animali domestici. Le sue composizioni variano da formati minimi a intere pareti o addirittura ambienti, per i quali risuscita l’antica tecnica italiana dell’affresco. Un sogno di armonia moderna, che in mostra si propone con la tela “Undici fiori cosmici” (1996).

FORTUNATO DEPERO
(Fondo, 1892 – Rovereto, 1960)

Brillante protagonista del secondo tempo del Futurismo italiano, dopo la Prima guerra mondiale. Contribuì nel 1915 alla redazione del manifesto sulla “Ricostruzione Futurista dell’Universo” e lo attuò con invenzioni “oltre la pittura”: grafica pubblicitaria, oggetti e mobili di arredo, moda, scenografie e costumi teatrali, pupazzi. Una attività poliedrica nutrita anche di una esperienza fatta negli USA dal 1928, con stile da favola modernista, giocosa e ironica. In mostra un libro “imbullonato” del 1927, “Dinamo-Azari”.

GIANNI DESSI’
(Roma 1968)

Si distingue, nel gruppo romano dell’ex Pastificio Cerere, per una spiccata attitudine a sperimentare materie nuove e diverse come basi e strutture per i suoi disegni e dipinti. Una pittura di liberi ritmi astratti oppure di figurazione minimale, tracciati contro fondali a tinte uniformi e tenui. Cultore di tecniche miste, usa anche corde in luogo di pennelli e cementite in luogo dei colori ad olio. Autore anche di scenografie per importanti eventi teatrali. Una sintesi del suo stile è offerta dal dipinto su carta tela e tavola “Quadro celeste”, 1994.

IRENE DIONISIO
(Torino 1986)

Laureata in Filosofia della Storia, attiva in gruppi di neoavanguardia torinese, direttrice di festival sperimentali, propone vie di linguaggio nuovo in prove di videoarte, che si estendono anche in istallazioni. Si è affermata come regista di documentari su temi sociali di attualità oppure su eventi e personaggi dell’arte contemporanea. Fra essi il video che opera una lettura storica e poetica sul palazzo della Farnesina a Roma con il video “A very Italian Palazzo” (2023), prodotto per questa mostra.

TANO FESTA
(Roma, 1938 -1998)

L’artista è il primo e più geniale inventore di una Pop Art romana che nei ‘60 assume spunti dagli USA combinandoli con memorie di grande arte italiana. Prima stende pittura monocroma su ante di finestre, persiane, armadi. Poi assume dentro piani di pittura ritagli fotografici da capolavori del Rinascimento e scritte lapidarie. Dipinge dagli ‘80 scene fra il surreale e l’astratto, con campi larghi di colori netti e figure nere come ombre. A questa fase appartiene il dipinto in acrilico su tela, esposto senza titolo.

GIUSEPPE GALLO
(Rogliano- Cosenza, 1954)

Fra i componenti del gruppo dell’ex Pastificio Cerere, l’artista calabrese si distingue per la ricerca di equilibri tra essenziali figure in superficie e accesi fondi astratti di memoria ancora informale. Una pittura con tendenza espressionista che recupera anche tecniche tradizionali.  Dai ‘90, questa ricerca si fa più simbolista e prova altre contaminazioni fra tempi diversi, anche dalla cultura mediterranea. In mostra il dittico “Senza titolo” del 2009. Olio, acrilico ed encausto su tavola.

ALBERTO GARUTTI
(Galbiate, 1948)

L’artista lombardo è pioniere e maestro in Italia di un nuovo genere di arte pubblica, emersa nel mondo sin dagli anni ‘90. Con istallazioni minimali e raffinate operazioni concettuali sollecita la partecipazione emotiva della gente e rivela insospettate, poetiche relazioni fra gli spazi della città e i suoi abitanti. Nell’Accademia di Brera a Milano ha indirizzato su vie nuove dell’arte molti giovani studenti. Ne è commovente testimonianza la scritta incisa su una mattonella nel 2015: ”Tutti i passi che ho fatto nella mia vita mi hanno portato qui”.

MIMMO JODICE
(Napoli, 1934)

Fra i più grandi fotografi italiani viventi, ha indagato sin dagli anni ‘60 la realtà sociale della sua città, Napoli. Dagli ‘80 ha messo a fuoco con raffinato uso del bianco e nero la vita segreta del paesaggio meridionale, dei suoi luoghi noti e ignoti, con sguardo antropologico. Dai ’90 la fotografa le città del mondo, dove viene costantemente celebrato. Ha ridato nuova vita anche a figure dell’archeologia classica che sembrano fluttuare in uno spazio fuori dal tempo. Una lucidità di visione e una intensità interiore dominata da un senso di attesa che trova sintesi nelle quattro fotografie in mostra, estratte dalla famosa serie “Mediterraneo” (1990-1995).

JANNIS KOUNELLIS
(Il Pireo, 1936 – Roma, 2017)

Nato in Grecia, ma naturalizzato italiano sin da giovane, è stato fra i massimi esponenti dell’Arte Povera, il movimento teorizzato da Germano Celant dal 1967. Ha messo in scena margherite di fuoco, carboniere e cotoniere, istallazioni con cappotti e scarpe, lastre di acciaio e candele, ma anche cavalli veri e piante. Una realtà ricreata con spirito mitico e con solennità drammatica, che però trae origine dalla pittura come esperienza primaria del segno. Lo dimostra l’omaggio che gli è reso con una grande acquaforte su carta del 2004.

FELICE LEVINI
(Roma, 1956)

Emerso dal 1980 nel gruppo italiano definito dei “Nuovi-Nuovi” che proponeva in pittura conciliazioni tra astrattismo e figurazione. Una tendenza che l’artista romano persegue prima con scomposizioni di colori e geometrie lineari, poi animando le superfici con ritratti, figure di animali, arabeschi. Sempre con mano di fantasia leggera e ironia poetica. Con un occhio al passato dell’arte e uno alle visioni del presente. Esemplare il pannello fotografico “Autoritratto con occhio luminoso” (1991)

SERGIO LOMBARDO
(Roma, 1939)

Due tempi differenti segnano il percorso dell’artista. Nel primo partecipa al gruppo romano che dialoga con la Pop Art, dipingendo una serie di “gesti tipici”: sagome in nero di personaggi celebri (anche della politica internazionale). Nella seconda fase, dal 1980, pratica una pittura di geometriche scomposizioni astratte, con la quale sperimenta l’intervento imprevedibile di algoritmi che generano forme casuali. Per questo parla di “eventualismo”. Ne è esempio il caleidoscopio pittorico intitolato “Lin-Sat” (1987).

PIERO MANZONI
(Soncino, 1933 – Milano, 1963)

La celebrità mediatica di questo innovatore del linguaggio dell’arte è affidata alla scatoletta esposta nel 1962 con l’etichetta “Merda d’artista”. Le sue provocazioni neo-concettuali sono sempre espressioni visive di idee, approfondite anche attraverso la rivista Azimuth fondata a Milano nel ‘59 con Enrico Castellani. Il proprio corpo, le materie e gli oggetti della quotidianità, sono messi in scena con modalità che invitano a vedere la realtà con occhi diversi: quasi trasfigurata dalla finzione dell’arte, quindi consegnata a “monumento” oltre il tempo. Come la “Base magica” con impronta dei suoi piedi, 1961.

MARINO MARINI
(Pistoia, 1901 -Viareggio, 1980)

Lo scultore toscano ha voluto sempre saldare la grande tradizione della statuaria italiana (dagli Etruschi al Rinascimento) con la essenzialità formale della moderna plastica europea che aveva il suo centro a Parigi. Negli anni ‘20-‘30 partecipò al movimento del “Novecento”, dal dopoguerra allacciò rapporti con rinnovatori della scultura come Henry Moore. La qualità classica della sua scultura si fa più scarna e più severa. Fra i soggetti preferiti spiccano i Cavalli. In mostra una versione con un bronzo del 1945.

ARTURO MARTINI
(Treviso 1889 – Milano 1947)

È stato il più grande interprete dei “valori plastici” del Novecento italiano, coniugando l’eredità del primitivismo del Trecento -Quattrocento con una straordinaria qualità di forme scolpite in posizioni di essenziale raccoglimento, riposo, sonno. Una sensibilità messa in crisi dai cambiamenti europei del dopoguerra. Per questo proclamò nel 1945: la scultura “lingua morta”, mentre realizzava ultimi tormentati capolavori. Prezioso esemplare della sua poetica intensa è la statua esposta “L’amante morta” del 1922.

FABIO MAURI
(Roma, 1926-2009)

Protagonista della neoavanguardia italiana negli anni con performances, grandi istallazioni oggettuali, mezzi filmici, libri. Ha concepito l’arte concettuale come critica politica e storica delle ideologie repressive, nel passato recente dell’Europa (il fascismo e le persecuzioni degli ebrei) e nel suo tempo. Un mondo che può essere riassunto nel titolo della complessa struttura in tela monocroma – che appartiene alla fondamentale serie degli “schermi” – qui esposta: “Perché un pensiero intossica una stanza” (1972).

MARIO MERZ
(Milano, 1925 – 2003)

È ritenuto il leader del gruppo torinese che partecipa alla nascita dell’Arte Povera. La sua arte si svolge con percorsi di vitalismo magico. Al centro, l’invenzione di semisfere metalliche ricoperte di pietre, legni, vetri che denominò “igloo”; l’applicazione della serie numerica di Fibonacci (un matematico medievale) rappresentata visivamente da una spirale, a molteplici istallazioni con cifre al neon, animali, macchine. Presente anche in tavoli con simbolici frutti. Motivi ricordati da due importanti versioni grafiche (1975, 1980) qui esposte.

MARISA MERZ
(Torino, 1926-2019)

Sensibile artista che ha voluto sempre farsi identificare col cognome del grande marito Mario. Ma ha conquistato autonoma notorietà con creazioni minimali di raffinata fragilità: fili di rame o di lana con rari intrecci, oggettini in cera bianca, testine in legno grezzo, esili disegni con ritratti quasi al limite della sparizione, poetiche fontanelle e bacinelle. Un mondo intimo, meditativo da non ridurre alla banale dimensione di arte “femminile”. Trasmette infatti messaggi sul mistero della vita, come la figura su carta del 2002.

MIRKO
(Udine, 1910- Cambridge USA, 1969)

Mirko è uno dei tre fratelli Basaldella, con Afro e Dino, tutti artisti di origine friulana venuti a Roma. Praticò scultura sin dagli anni Trenta. Ma la sua personalità esplose con nervosi intrecci astratti di ispirazione informale dal 1948. Poi,  dopo viaggi in Medio ed Estremo Oriente e in America Latina, inventò un mondo di visionarietà mitica con personaggi barbarici, totem e  maschere, animali selvaggi. Ne furono sedotti Peggy Guggenheim e ambienti culturali in USA. In mostra s’innalza un Guerriero in legno del 1959.

MAURIZIO MOCHETTI
(Roma, 1940)

L’artista si è rivelato dal  1968  a Roma con clamorose performances tecnologiche, seguite subito dopo dall’uso pionieristico di raggi laser rossi che attraversano spazi e ne modificano la percezione. Proprio la quarta dimensione dello spazio-tempo ha sollecitato l’artista ad inventare anche apparati specchianti o elastici, oppure fantasiosi aerei e razzi. Ha rilanciato così motivi del futurismo ma senza utopie, giocando piuttosto su effetti conturbanti o spiazzamenti ludici. Sintomatici i tre aeroplani intitolati “Pinguino” (1987- 2005).

LILIANA MORO
(Milano 1961)

Apparizioni trasognate di singoli oggetti o di frammenti sparsi per terra, istallazioni ermetiche con messaggi sonori o scritture, designano la poetica minimalista di una artista delicata e rigorosa insieme, formatasi nel clima neoconcettuale degli anni 70. Propone attenzioni al tempo vissuto e perduto come ai segni di un tempo presente e dubbioso. Con passaggi ironici dal gioco al turbamento (come il branco di cani disperati in bronzo del 2005). Ne è prova la sequenza grafica intitolata “Chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori” (2003).   

NUNZIO
(Cagnano Amiterno -L’Aquila, 1954)

L’artista Nunzio (Di Stefano) disceso dalle Marche a Roma ha portato nelle sue sculture, apparse dagli anni ‘80, memorie di porte e muri pastorali della sua terra, filtrate dal rigore dell’arte minimal americana. La sintesi personale è in strutture in legno ferro e piombo (poi anche in bronzo) erette con ricerca di equilibri tra materia e luce e di armoniose relazioni con lo spazio. Un sentimento arcaico che tende a definirsi in qualità di forma classica. Dialogo evidente nel grande pannello in piombo su legno “Salina” (1993)

LUIGI ONTANI
(Vergato, Bologna, 1943)

Originale interprete della nuova maniera postmoderna, parte dagli anni ‘60 con tableaux vivants con il proprio corpo nudo o travestito, tradotto in fotografie. Poi inventa contaminazioni fantastiche con miti e icone dell’Estremo Oriente, l’India in particolare, in sculture, installazioni e dipinti. Esemplare l’autoritratto fotografico “Cleopatria”(1998): interpreta Cleopatra, la regina d’Egitto che si dà la morte con una serpe, indossando il tricolore italiano.

MIMMO PALADINO
(Paduli, Benevento, 1948)

Memorie dell’antica civiltà italica, emblemi di oggetti poveri significativi del presente, icone sul mistero della morte, confluiscono nell’arte meditativa di un artista del Mezzogiorno italiano emerso come pittore dal movimento della Transavanguardia negli anni ‘80. Autore dai ‘90 di grandi installazioni metafisiche in spazi pubblici e di sculture che rivisitano con sensibilità moderna la “grande visione” italiana. Ne è conferma eloquente il bronzo equestre “Etrusco/Omaggio a Marino Marini” (2003).

GIULIO PAOLINI 
(Genova, 1940)

Esponente del gruppo di arte concettuale torinese dai ’60.  Propone interrogazioni sul rapporto tra realtà e finzione nelle immagini e riflessioni enigmatiche sulle strutture, i segni e gli elementi che definiscono l’opera d’arte. Tele e istallazioni dimostrano purezza metafisica e dialoghi con la classicità italiana e mediterranea. Come nella composizione con cornice e frammenti fotografici “Giove e Antiope” (2016-2021). Nel 2022 ha ricevuto il “Premium Imperiale” a Tokyo.

PINO PASCALI
(Bari,1935 – Roma,1968)

L’avventura breve dell’artista pugliese a Roma, stroncata a soli 35 anni, si condensa in una serie di cicli inventivi tra gioco e mito che superano Pop Art e Arte Povera: finte armi, “finte sculture” di animali decapitati in tela centinata, mari in cassetta di acqua vera, bruchi e ragni giganti, ponti e trappole, giacigli e attrezzi rurali, tutti in materiali di consumo di massa. Fa da contrappunto una sfrenata produzione di disegni fantastici e bozzetti ironici per le pubblicità della Rai -Tv. Un sintomatico omaggio gli è reso col disegno “Totem” del 1965.

LUCA MARIA PATELLA
(Roma, 1934)

Artista “totale”, fantasioso ed eclettico, ha praticato e in parte reinventato tutti i linguaggi da Duchamp in poi con personale vena surrealista. Pioniere nei ‘60 dell’arte performativa e ambientale, della fotografia sperimentale, precursore della videoarte. Autore dai ‘70 di istallazioni e pubblicazioni in cui si mescolano astronomia, chimica, psicologia, esoterismo, giochi linguistici, poesia e letteratura. Un cocktail di arte e vita, del quale si può assaggiare il sapore nella tela fotografica del 1973 “Sal e Rond nei medaglioni cosmici”.

ACHILLE PERILLI
(Roma, 1927 – Ciconia-Orvieto 2021)

Protagonista a Roma , già col gruppo  Forma 1 nel 1947, della esperienza innovativa di arte astratta – concreta. Traferisce la cultura del segno geometrico mutuata dal cubismo europeo in prove di teatro e musica sperimentale. Anche da queste esperienze le sue geometrie astratte si animano in tessere nettamente profilate e riempite di colori diversi e brillanti, articolate in composizioni mobili nello spazio. Un formalismo lucido e sereno, si potrebbe definire “mediterraneo”. Come si evince dalla visione del suo “Viaggio in Italia”, tela del 1955.

BENEDETTO PIETROMARCHI
(Roma,1972)

Una fantasia leggera e cordiale che fa convivere sogni da piccolo eden (piante, fiori, uccelli) nel tepore della ceramica percorre le opere plastiche di un artista che ha vissuto per 15 anni a Londra e ha girato il mondo prima di fermarsi a vivere in Toscana.  La terra delle sue origini, delle radici di una antica sapienza artigiana. Arte “naturalista” che però tiene conto di stimoli surreali dal post-pop europeo, sino ad usare anche veri tronchi e radici. Se ne vede una, sospesa contro nuvole serene, nella stampa su polpa di legno “Noon Clouds” (2016).

ALFREDO PIRRI
(Cosenza, 1957)

La fama dell’artista calabrese che vive a Roma si è diffusa da quando ha presentato nel 2005 un pavimento di specchi che possono essere calpestati e rotti. Da allora l’istallazione “Specchi” va occupando musei, castelli, palazzi, spazi aperti. Parabola di rapporti spiazzanti tra arte, architettura e spazi da sempre indagato dall’artista in molteplici prove. Autore anche di sculture diversamente precarie, mobili e vitali. Come i tubicini di rame che si attorcono per evocare il mito del “Ratto d’Europa” (1996).

VETTOR PISANI
(Bari, 1935 – Roma, 2011)

Fuori da ogni schema si svolge il percorso di un artista che esordisce a Roma nel 1970 con performances che rivisitano Duchamp in chiave psicanalitica. Da lì opere, installazioni e azioni che accentuano incroci fra utopie e fobie, simbolismi e mitologie. Mette in scena sfingi e marionette, immagini dell’arte, angeli, animali sacri. Tutto con ironia teatrale spinta sino al grottesco, che nasconde un sentimento di morte. Motivi contrastanti che si ritrovano nella colonna con corpi dorati “Hermes”(2007).

MICHELANGELO PISTOLETTO
(Biella, 1933)

Autore di prestigio internazionale (anche il premio Imperiale di Tokyo 2013). Famoso già nei primi anni 60 con specchi su cui sono fissate sagome fotografiche di personaggi, ma integrati da chi, passando, si specchia.  Diviene protagonista nei 70 del movimento dell’Arte Povera. Promotore dai ’90 di iniziative di arte pubblica e collettiva con la sua Fondazione Cittadellarte a Biella e di un progetto di rinascita artistica e sociale denominato “Terzo Paradiso”. In mostra uno Specchio su cui si si riflette la statua in bronzo di un Etrusco (1976).

PIERO PIZZI CANNELLA
(Rocca di Papa,1955)

Ombre, macchie, scolature di colore, segni sfibrati, velature e trasparenze creano una atmosfera inquieta nei dipinti figurativi di un altro artista emerso dal gruppo della Nuova Scuola Romana negli anni ‘80. Una figurazione malinconica che si esprime per cicli tematici. Oggetti in solitudine come sedie, conchiglie, lampadari. Apparizioni pallide di paesaggi di mare e di terra. Cattedrali di nero spettrale. E personaggi anche loro solitari, anche quando sono celebri. Come Achille Bonito Oliva, evocato nel quadro “Ad Achille” (1985-86).

FABRIZIO PLESSI
(Reggio Emilia, 1940)

Pioniere dell’arte elettronica sin dalla fine gli anni ‘60, incentrata sul tema naturalistico dell’acqua. Ispirazione dettata dal suo lungo rapporto con Venezia, la città dove vive. Ha realizzato imponenti istallazioni con serie di televisori da cui l’acqua traspare dando vita ad immaginari  fiumi, cascate, mari verticali. Intervengono poi istallazioni con fuochi digitali. Realizza anche complessi fisici con anfore, tronchi, pietre come ritorno alla materia più arcaica in contrapposizione al digitale. A questa fase riportano gli emblematici televisori in terracotta “Materia prima” (2016).

ARNALDO POMODORO
(Morciano di Romagna, 1926)

Si è imposto da Milano all’attenzione internazionale sin dagli anni ‘60 con sculture astratte di levigate e lucenti forme primarie in bronzo dorato (colonne, dischi, sfere, triangoli) segnate all’interno da lacerazioni e da apparenti rotture e frammenti di congegni meccanici dentellati. Una tensione tra classicità e dramma moderno esaltata da dischi monumentali eretti in tutto il mondo. Anche davanti alla Farnesina a Roma e al Palazzo dell’Onu a New York. Gli è reso omaggio con un Disco Solare del 1989.

DANIELE PUPPI
(Pordenone, 1970)

Uno degli artisti più interessanti di nuova generazione, affermatosi con forti prove di arte esperienziale. Grandi proiezioni invadono gli spazi e colpiscono gli spettatori. Sono gesti semplici (compiuti di solito col proprio corpo), però portati all’estremo della tensione, con rumori assordanti e improvvisi. Operazioni di spiazzamento multisensoriale, oltre a varianti più concettuali. Come in “London Calling” (2013-14) qui esposto dove, sollevando la cornetta di un telefono che squilla ad intervalli, si ode l’inusuale ululato di lupi.

MIMMO ROTELLA
(Catanzaro, 1918 – Milano, 2006)

Partecipa con fervore creativo alle prove di risposta europea alla Pop Art, aderendo al movimento del Nouveau Realisme di Pierre Restany. Ma già dal 1953 sperimenta a Roma il décollage (opere su tela realizzate con strappi di manifesti pubblicitari e da film) che gli dà fama internazionale. Nei ‘60 inventa gli artypos (sovrapposizioni di fogli di stampa), poi altre forme di stravolgimento meccanico o gestuale sui materiali cartacei. Negli ‘80 dipinge quadri ispirati al Cinema. In mostra un esemplare décollage del 1959, “R Rosso”.

PIETRO RUFFO
(Roma, 1978)

Compie fantasiosi interventi su atlanti, mappe, archivi geografici e storici. Utilizza diversi materiali come ritagli di carta, spilli, ceramica e porcellana per realizzare paesaggi, figure umane, mappe e geometrie che si articolano in sovrapposizioni e stratificazioni di vicende umane, di simboli. Storie individuali e collettive che riflettono su emergenze geopolitiche del nostro tempo, insieme al grande tema della libertà rappresentato da libellule e farfalle come nell’esemplare opera con tecnica mista “De Hortus (Grey and Siena)”, 2018. Qui esposta.

ALBERTO SAVINIO
(Atene 1891 – Roma 1952)

Massimo esponente del Surrealismo italiano, adottò un nome d’arte per distinguersi dal fratello maggiore, il famoso pittore metafisico Giorgio De Chirico. Si dette alla pittura solo tardi, dal 1927, dopo essersi affermato a Parigi come scrittore e musicista. Dette vita a dipinti stralunati e ironici che evocano metamorfosi tra umani e animali e tra alberi e giocattoli. Avventure che fuoriescono da stanze domestiche o creano paesaggi incantati. In mostra, la tempera su cartone “Ciò che resta” (1933-1944).

MARIO SCHIFANO
(Homs, Libia 1934 – Roma 1998)

Geniale protagonista di una “Pop Art italiana” differente dai modelli USA. Prima con pittura di “paesaggi anemici”, ingrandimenti di marchi e segnali stradali, rivisitazioni del Futurismo. Poi trasferendo su tela immagini da telegiornali e spettacoli tv. Realizza film sperimentali, trasfigura frammenti di pellicole e diapositive. Dagli ’80 diviene autore di accese improvvisazioni pittoriche con paesaggi fantastici, vegetazioni orientali, giochi d’infanzia. Un esempio particolare è offerto in mostra con il grande dipinto “Santuario” (1986).

MARCO TIRELLI
(Roma, 1956)

Forme pure di geometria solida (sfere, parallelepipedi, tronchi di cono) o primarie strutture architettoniche (porte, finestre, vani) sono la principale fonte di ispirazione del pittore, uscito anche lui dalla Nuova Scuola Romana. Composizioni tra astrazione e figurazione, sostanzialmente monocrome. Le forme sono avvolte da luce magica che sembra uscire dall’ombra. Rende impalpabile il colore e tiene in sospensione la scena. Effetto visibile nella sfera dipinta in tempera su tela “Senza titolo”, 2006.

GRAZIA TODERI
(Padova, 1963)

Le immagini dell’ artista, fra le più importanti nella generazione italiana di mezzo, provocano vertigini e sensazioni di espansione dello spazio e del tempo verso l’infinito. Trasforma infatti prestigiosi teatri, monumenti e  chiese, in astronavi rotanti nello spazio astrale. Trasfigura anche in rosso totale, vulcanico o infernale, profili di città o di torri che diventano galassie. Dal video sul Teatro alla Scala di Milano discende la grande stampa intitolata “Semper eadem” (2004). Titolo tratto dal motto latino “Sempre lo stesso” che indica la costanza e la coerenza.

GRAZIA VARISCO
(Milano, 1937)

Promotrice in Italia dell’arte cinetica e programmata sin dai primi anni ‘60. Prima col gruppo T a Milano, poi con l’invenzione personale di Tavole magnetiche con elementi spostabili, Schemi luminosi variabili, Reticoli frangibili, Quadri comunicanti , e interi Ambienti percorsi da linee di luce.  Una poetica del  gioco fra la Regola e il Caso che sollecita il coinvolgimento delle persone e la disponibilità ad accettare il cambiamento e l’imprevisto come condizione non solo dell’arte. Una versione del 2008 di “Quadri comunicanti” la rappresenta in mostra.

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